Li vedi sorriderti di un’allegria impensabile, per quella latitudine frustata dal vento, mentre scherzano sul fatto che da loro piove… in orizzontale. E così intanto ti spieghi le griglie di legno con i tranci di merluzzo appesi a prosciugare all’aperto… “è il sale del nostro mare, è la nostra genuina salsedine che li fa così buoni”, altro che baccalà norvegese o islandese, ti spiegano fieri.
Sono gli isolani delle Far Oer, e magari in pochi di voi sapranno di queste piccole isole adagiate nel pieno centro del Nord Atlantico, a metà strada esatta tra Scozia, Norvegia e Islanda.
I faroesi sono cittadini danesi, ma qui della Danimarca c’è ben poco, a parte la lingua – che pure quella convive con un musicalissimo dialetto norreno parente stretto dell’islandese – e a parte la nave, che dalla Danimarca salpa e di qui passa due volte la settimana, proseguendo o tornando dall’Islanda. Altro che Europa… Danimarca sì, ma mica Unione Europea, e infatti per venire ci vuole il passaporto, non dimenticatelo.
Eh già, l’Europa è davvero lontana da questo pazzesco sogno scandinavo sempre umido di pioggia che sembra emergere da un passato lontanissimo, con i suoi mille rivoli che dagli alti picchi scaricano direttamente a mare l’acqua delle precipitazioni incessanti. Fino al prossimo strabiliante arcobaleno che illumina all’improvviso l’aria bagnata, lasciando risplendere ogni singola goccia.
Pioggia, mare, erba, scogliere e pecore – ma tante tante pecore – compongono il mondo isolatissimo e arcaico della gente di quassù. Che sogna l’Italia e il sole dell’Italia, che ti chiede perplessa cosa ci sei venuto a fare, sin qua, che ti sembra insomma non vedere l’ora di andarsene una volta buona e per sempre da questi lembi di terra ingrata, salvo poi inalberarsi e stizzirsi per prendere con maschia dignità le difese del grindadrap, la tradizionale mattanza delle balene pilota che tanto scandalizza il mondo, ma che qui altro non è che una delle tante componenti della vita di pesca locale. Te lo raccontano con disarmante naturalezza, appena ti scoprono disponibile ad ascoltare invece che ad inveire, spiegandotene la stretta interconnessione con il sostentamento e la solidarietà tra le varie comunità locali. Come in un antico codice medioevale, appunto. E precisamente in questo modo è tutto codificato: avvistamenti, inseguimenti, spiaggiature, macellazione e ripartizione della carne.
Un mondo a parte che neppure il galoppante inquinamento da mercurio dell’oceano riesce ancora a scalfire. Perché questo è l’Eden dei Vichinghi, perché così doveva essere il Valhalla che sognavano, quando più di mille anni fa facevano tappa tra i fiordi delle “isole delle pecore” situate lungo la loro rotta per Islanda, Groenlandia e Vinland, la leggendaria terra delle vigne, le sponde di quello che oggi è il Canada atlantico e il New England.
E che tu voglia chiamarle Far Oer, in danese, Faroe in inglese piuttosto che Foroyar in lingua locale, ciò a cui alluderai sarà sempre e comunque quel remoto luogo dell’anima agli estremi confini settentrionali d’Europa, là dove il mare bigio e tempestoso la fa da padrone indiscusso, mentre la dura realtà della vita si tinge invece dei colori del sogno, del godere del piacere delle giornate nella natura contenti del poco – o del tanto – che la natura sa dare.

La redazione di NST ama definirmi un “viaggiatore d’altri tempi”, e non si può dire che abbia tutti i torti: a cinquant’anni suonati, ho fatto in tempo a vedere un bel po’ di mondo com’era, appena prima che si trasformasse in quello di oggi. Questo mio prezioso bagaglio di viaggi “vintage” mi ha aiutato a costruirmi una personale filosofia di viaggio con la quale mi ostino ad interpretare i cambiamenti che sperimento in giro per il pianeta.